1. Tiki Taka Pep Guardiola

    2 maggio 2012 by Emiliano Adinolfi

    BARCELONA ONE TOUCH FOOTBALL

    Pep Guardiola

    Guardiola nasce in un paesino di cinquemila abitanti nel nord della Catalogna. E’ sempre stato uno molto precoce. A tredici anni entra nella cantera degli azulgrana. Nel 1990 fa il suo esordio in prima squadra, in panchina c’è Johan Crujiff, che gli dà le chiavi della squadra. E’ lui il regista di una squadra fortissima, che verrà soprannominata il ‘Dream Team’. A Wembley gli azulgrana con un gol di Ronald Koeman battono la Sampdoria e vincono per la prima volta la Champions League. Con Crujiff allenatore il Barca vince quattro volte consecutive la Liga, nel ’93 e nel ’94 Romario e compagni vincono all’ultima giornata, sempre con l’aiuto del Tenerife. Quando arriva Van Gaal c’è una pulizia generale, Guardiola è l’unico della vecchia guardia a rimanere, diventa il capitano e fa in tempo a vincere un altro paio di campionati. Gli ultimi anni della sua carriera li passa in Italia, dove gioca una trentina di partite tra Brescia e Roma e nel Qatar. Dopo aver smesso con il calcio intraprende la carriera di allenatore,dopo essere stato scartato da club italiani come trainer delle giovanili torna in blaugrana. Guida per un anno la squadra B del Barcellona, poi a sorpresa viene scelto come allenatore dei blaugrana. Secondo indiscrezioni esorta il presidente a concedergli una chance come responsabile della prima squadra.

    E’ l’estate del 2008 il Presidente Laporta punta su di lui, e rischia tantissimo. Guardiola, sempre elegantissimo in panchina e con la barba incolta, eredita da Rijkaard una squadra fortissima, piena di Campioni d’Europa (che pochi mesi prima avevano vinto Euro 2008 con la Spagna), con un trio favoloso in avanti: Henry, Eto’O e Messi. Lui si porta un po’ di giovani della cantera, che pian piano si conquistano il posto, come Pedro, il primo calciatore della storia dei catalani a segnare in tutte le competizioni, e Busquets.
    Nel giro di sette mesi il Barcellona conquista sei trofei. Arriva il ‘triplete’. Guardiola vince senza soffrire la Liga, rifila anche sei gol al Real Madrid al Bernabeu, vince la Champions League, a Roma è sconfitto il Manchester United, si prende anche la Coppa del Re. In Estate vince Supercoppa Europea e Supercoppa spagnola e dà ai catalani il primo Mondiale per Club. Guardiola che dà calciatore ha vinto 16 titoli, probabilmente ha perso il conto dei trionfi ottenuti da allenatore. Sono arrivate altri due trionfi nella Liga, un’altra Champions League, un altro Mondiale per Club, due Supercoppe di Spagna e un’altra Supercoppa Europea. In mezzo la ‘manita’ al Real Madrid.


  2. Brian Clough: Storia di un Vincente (Maledetto United)

    24 gennaio 2012 by Emiliano Adinolfi

    Clought

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    A cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 il calcio inglese vide salire alla ribalta un allenatore che passò alla storia come uno dei più innovativi e vincenti e che per certi versi ricorda molto Mourinho. Brian Clough nasce a Middlesbrough il 21 Marzo del 1935.Da giocatore si fa conoscere per il suo carattere da duro, ma è da allenatore che ottiene la sua consacrazione. Si ritira, dal calcio giocato, all’età di 28 anni, diventando a 30 annil’allenatore più giovane del Regno Unito. Inizia la sua avventura sulla panchina dell’Hartlepools United, insieme al suo inseparabile amico Peter Taylor con cui aveva giocato insieme. Sodalizio questo che porterà a grandi soddisfazioni. Iniziano a costruire una squadra di giovani promettenti che raggiungerà la promozione quando saranno già passati sulla panchina del Derby County. Quando prendono le redini del Derby la squadra si ritrova in un’anonima posizione della seconda divisione inglese.

    I due iniziano a lavorare duramente raggiungendo presto la prima divisione, anche grazie alle innovazioni tattiche apportate dal duo. Un calcio basato essenzialmente sulla difesa e sul gioco palla a terra. Una volta Clough disse:” Se Dio avesse voluto che giocassimo a calcio fra le nuvole avrebbe messo l’erba lassù”. Dai suoi calciatori pretende applicazione e spirito di sacrificio mentre lui si sarebbe occupato di difenderli a spada tratta durante le conferenze stampa, un po’ come fa oggi Mourinho. Prepara maniacalmente la preparazione atletica scegliendo personalmente lo staff. Persona dotata di grande carisma era solito ascoltare solo i consigli del suo fidato Peter Taylor finendo per scontrarsi con i suoi superiori soprattutto con Sam Longson del direttivo del Derby.

    Ovviamente con un allenatore così le polemiche non mancavano di sicuro, ma la squadra dopo un avvio faticoso ottiene la promozione. L’anno successivo il Derby inizia a farsi rispettare anche in prima divisione iniziando a scalare posizioni su posizioni. Al “Baseball Gruond” mai avevano visto cose del genere e il primo anno il Derby ottiene un sorprendente quarto posto. Al terzo anno i ragazzi di Clough ottengono un sudatissimo quanto inaspettato scudetto. Dopo una stagione vissuta punto a punto con il Leeds, che all’epoca era considerata la migliore squadra del paese, il Derby nell’ultima di campionato battono il Liverpool e scavalcano il Leeds di un punto, che però deve ancora giocare in casa contro il Wolverampthon. Nonostante il Leeds venisse dalla vittoria in Coppa inglese contro l’Arsenal cadde incredibilmente perdendo per 2-1 e regalando l’inaspettato titolo al Derby. Talmente inaspettato che Clough era già in vacanza mentre i ragazzi del Derby erano impegnati in una tournee in Spagna sotto la guida del fidato Taylor e solo il giorno dopo apprendono la notizia.

    L’anno dopo grazie anche all’ambizione di Clough i ragazzi del Derby raggiungono la semifinale dell’allora Coppa dei Campioni dove incontrano la Juventus. Due partite che furono travolte dalle polemiche alimentate da Clough e dal suo assistente Taylor. L’andata vide gli italiani imporsi per 3 a 1 ma Clough dichiarò a fine partita di aver visto Italiani dentro lo spogliatoio dell’arbitro prima durante e dopo la gara. Le polemiche non si placano ma anzi Taylor prova ad aggredire l’arbitro rischiando addirittura l’arresto.

    La stampa internazionale inizia a descrivere Clough come una persona arrogante e ai limiti della decenza (ricorda qualcuno? ) Prima della partita di ritorno Clough con la sua solita abilità surriscalda gli animi in sala stampa, ma nonostante questo il Derby non riuscirà a ribaltare il risultato dell’andata. A questo punto Clough dopo l’ennesimo diverbio con il padre padrone del Derby, Sam Longston, decide di dimettersi. Pare che ad un emittente televisiva dichiarò;” Non sono il migliore allenatore del paese, sono solo il più bravo”, che ricorda tanto la dichiarazione di Mourinho quando disse:” Non sono il migliore, ma nessuno è migliore di me”. Alla base di questo litigio pare ci fosse il fatto che Sam Longston volesse un posto nella federazione e temeva che le continue polemiche del suo allenatore potessero danneggiarlo.

    Nel frattempo Don Revie, allenatore del Leeds era in trattativa con la nazionale inglese, mentre Clough stava trattando con un club di terza divisione, il Brighton. Clough e Taylor firmano un precontratto pretendendo anche deu settimane di vacanze pagate. Ma mentre era in vacanza viene contattato dai dirigenti del Leeds decidendo così di rompere con il Brighton. Ma il suo amico Taylor non se la sente di rimangiarsi la parola data e lascia andare da solo Clough al Leeds.

    Qui affronta un periodo buio della sua carriera, si scontra con il nucleo storico del Leeds, soprattutto con il capitano, ottenendo modestissimi risultati. La dirigenza del Leeds decide di sollevarlo dall’incarico e Clough pretende una buonauscita che sembra un opera di strozzinaggio. Così quando un dirigente gli chiede chi pensasse di essere, lui rispose così:”io? Sono Brian Howard Clough”. E se ne andò. Nel frattempo tutti gli dicevano che i suoi successi erano dovuti alla grande abilità del suo amico Taylor e che senza di lui non sarebbe riuscito da nessuna parte. Decide di fare la pace con il suo amico e tornare a lavorare inseme. Decide così di passare alla guida del Nottingham Forrest all’epoca in seconda divisione, considerata da tutti una scelta che segna la fine della carriera di Clough.

    Ma grazie alla sua dedizione riesce non solo a risollevare il club ma anche a portarlo alla vittoria di ben due Coppe dei Campioni consecutive. Impresa mai più eguagliata da nessuno. Considerato dagli esperti come una persona presuntuosa, arrogante e che parlava troppo.

     

    Se Dio avesse voluto che giocassimo al

     calcio fra le nuvole, avrebbe messo l’erba lassù.

    Brian Howard Clough

     

    Un tributo del film “Maledetto United” dove si racconta della storia di uno dei più grandi allenatori di calcio di tutto il pianeta e del suo assistente fidato Peter Taylor ..è anche l’unico ad essere riuscito a vincere due coppe di campioni consecutivamente(1979,1980) con il notthingam forrest.


  3. Julio Velasco Psicologia Sport

    14 agosto 2011 by Emiliano Adinolfi

    Julio Velasco

    Julio Velasco, leggenda dello sport, è stato ospite della seconda giornata di 21min – I saperi dell’eccellenza, evento organizzato da InformaAzione. Velasco ci ha parlato dell’importanza di non pretendere la perfezione, ma l’eccellenza, intesa come equilibrio di due forze contrastanti.
    Il suo palmares di allenatore è impressionante: ha portato in vetta molte delle squadre di pallavolo che ha allenato, sia maschili che femminili, in Argentina, Italia e Spagna.

    PALMARES

    Con il Ferrocarril Oeste di Buenos Aires:

    • 4 campionati argentini: 1979, 1980, 1981, 1982

    Con la Panini Modena:

    • Scudetto.svg 4 Campionato italiano: 1986, 1987, 1988, 1989
    • Coccarda Italia.svg 3 Coppe Italia: 1986, 1988, 1989
    • Coppa CEV trophy.svg 1 Coppa delle Coppe: 1986

    Con la nazionale italiana maschile:

    • 2 Campionati del mondo: 1990, 1994
    • 3 Campionati europei: 1989, 1993, 1995
    • 5 World League: 1990, 1991, 1992, 1994, 1995
    • 1 Coppa del Mondo: 1995
    • 1 medaglia d’argento alle Olimpiadi: 1996
    • 1 Grand Champions Cup: 1993
    • 1 World Top Four FIVB: 1994
    • 1 Top Six FIVB: 1996

  4. Calcio Totale Rinus Michels

    27 aprile 2011 by Emiliano Adinolfi

    IL CALCIO TOTALE

    Rinus Michels è stato l’inventore del calcio totale. Recentemente scomparso (2005), il “generale” – come era soprannominato – stabilì che i giocatori della sua squadra dovevano diventare il più possibile universali, capaci cioè di ricoprire vari ruoli.

    Da questo presupposto, i  difensori tornavano a marcare a zona sfruttando al massimo la tattica del fuorigioco; i centrocampisti e gli attaccanti pressavano a tutto campo i portatori di palla avversari; ogni calciatore doveva saper attaccare e difendere la sua zona di competenza. La disposizione in campo che predilesse fu il 4-3-3.

    La nuova filosofia di copertura degli spazi si sostituisce al concetto di contrapposizione individuale, tipico del catenaccio.

    Nel 1999, la Fifa ha eletto Michels allenatore del secolo e, nel 2002, la UEFA gli ha concesso l’Ordine di Merito per “il contributo alla crescita e alla storia del calcio”.

    PALMARES

    Finalista Coppa del Mondo 1974 Olanda
    1 titolo Europeo: 1988 Olanda
    1 Coppa Campioni1 vinta Ajax 4-1 1971 Ajax – Panathinaikos 2-0
    4 titoli nazionali con l’Ajax: 1966, 1967, 1968, 1970
    1 titolo con Barcellona: 1974
    3 coppe d’Olanda con l’Ajax: 1967, 1970, 1971
    1 Coppa del re di Spagna con il Barcellona: 1978
    1 Coppa di Germania con il Colonia 1983


  5. Julio Velasco: “Lo spirito di squadra è la chiave del successo”

    1 aprile 2011 by Emiliano Adinolfi

    Michael Jordan, Scottie Pippen, Dennis Rodman riuniti in una stanza arredata con totem e altri oggetti indiani. I Chicago Bulls raccolti intorno al loro coach, Phil Jackson, che legge loro brani dal “Libro della giungla” di Rudyard Kipling per preparare la squadra alla partita. Una frase del romanzo ricorre più spesso: “La forza del lupo è il branco, e la forza del branco è il lupo”. Strane coincidenze accadono. “E’ uno dei miei libri preferiti”, commenta Julio Velasco (il plurivincitore con l’ItalVolley), “va però detto che quando il lupo diventa vecchio, e non è più in grado di cacciare, il branco lo uccide. Questo è un po’ quello che succede a tutti i leader”.

    Perché secondo lei il mondo imprenditoriale parla sempre più spesso di gioco di squadra?

    “Per una serie di fattori che stanno coinvolgendo la nostra società: per la grande competitività, per la crescente complessità, per la concentrazione a livello imprenditoriale, e infine, per la globalizzazione”.

    Come valuta il mondo aziendale sotto il profilo dello spirito di squadra?

    “Mi sembra di capire che nella nostra società, in azienda, la cultura di squadra non sia molto diffusa. Tutti insistono a voler parlare di gioco di squadra, che è visto come un imperativo morale da raggiungere. Ciò equivale a dire: dobbiamo essere dei bravi ragazzi, dobbiamo avere spirito di squadra. Questo è positivo ma non sufficiente. Un mero concetto di solidarietà: tutti per la causa”.

    Ma allora il gioco di squadra è imprescindibile?

    “E’ necessario inquadrare il problema. Io non sono d’accordo con l’affermazione che senza la squadra non si fa nulla. Il mondo imprenditoriale è pieno di uomini che da soli, usando gli altri come pedine operative, hanno fatto grandi cose. Ritengo però che gli affari, come tante altre attività, in una società che si sta sempre più globalizzando, siano diventati sempre più complessi, più vasti. Come conseguenza anche se si ha il fuoriclasse, imprenditore o giocatore che sia, si farà sempre più fatica. Ergo, il gioco di squadra comincia ad essere una necessità. E non a caso sta divenendo un concetto di cui si parla molto nelle aziende”.

    Quale motivazione, in un mondo sempre più orientato all’individualismo, spinge a creare un gioco di squadra?

    “Essenzialmente perché conviene a chi ne fa parte. Anche se ragiona da egoista. Per la stessa essenza del gioco di squadra: la tattica. La tecnica è solamente lo strumento. Un buon sistema tattico permette di mettere in evidenza i miei pregi e nascondere i miei difetti, e, contemporaneamente, sottolineare i difetti dell’avversario e neutralizzare i suoi pregi”.

    E’ la tattica, allora, il valore aggiunto del giocare in una squadra?

    “Esattamente, perché anche se un giocatore è bravissimo c’è sempre qualcosa in cui non è molto abile. E tramite il gioco collettivo si riesce a far emergere il meglio di ognuno, sopperendo ai suoi difetti con le doti di un altro. Un gioco di squadra che non faccia questo applica una tattica sbagliata. Inoltre continuando a tarpare i pregi di un individuo, alla lunga, questi si stacca dalla squadra. In un club sportivo può essere sostituito, ma in un’azienda, dove la mobilità è decisamente più bassa, può diventare un problema serio”.

    E come si mantiene un individuo all’interno della squadra?

    “Non certo con discorsi moralistici. Servono criteri più utilitaristici e pragmatici: deve intravedere la convenienza dello stare nel gioco di squadra, traendo i maggiori benefici personali giocando insieme a compagni che nascondano i suoi difetti ed esaltino invece i suoi pregi”.

    Da dove inizia, quindi, la costruzione di una squadra?

    “Dall’avere chiaro l’obiettivo. La seconda è di avere un gioco ben delineato, conosciuto da tutti”.

    Che cosa significa?

    “Significa che la metodologia, lo stile di lavoro e di gioco, devono essere chiari a tutti, e non soltanto al capo. Molti concepiscono il gioco di squadra come: “io penso, loro eseguono. E chi non esegue non possiede spirito di squadra”. Le vere squadre non sono così. Il ruolo dell’allenatore consiste nel saper costruire un gioco in collaborazione con i giocatori”.

    Ed ecco il ruolo dell’allenatore. “Uno non è un grande allenatore quando fa muovere un giocatore secondo le proprie intenzioni, ma quando insegna ai giocatori a muoversi per conto loro. L’ideale assoluto, che come tale non è mai raggiungibile, viene nel momento in cui l’allenatore non ha più nulla da dire, perché i giocatori sanno già tutto quello che c’è da sapere. Tutti devono conoscere, oltre alla tecnica, come si gioca, la tattica, insomma”.

    La figura dell’allenatore è quindi assimilabile a quella di un capo?

    “E’ indubbiamente un ruolo di comando. Deve essere in grado di assumersi sulle proprie spalle i rischi. La tattica deve essere condivisa da tutti, anche tramite un contraddittorio. Se non c’è accordo tra tutti, cosa si fa? Qui entra in gioco il capo: ebbene, decide lui, perché non si può vivere nel conflitto. Il capo si assume le sue responsabilità, cercando di sbagliare il meno possibile. Un margine di errore esisterà ovviamente sempre, l’essenziale è esplicitarlo ben chiaro in precedenza”.

    Squadra e gruppo, non sono la stessa cosa.

    “No, e non vanno confusi. Il gruppo è l’elemento alla base della squadra. Il gruppo si forma svolgendo un’attività in comune: ad esempio, una classe scolastica. Nel gruppo l’individuo ha dei ruoli, ma non ben delineati, attribuitigli spontaneamente dagli altri componenti. Inoltre non c’è un unico leader, perché viene scelto a seconda dell’attività svolta. Il gruppo è un’entità propria: ciò significa che la sua caratteristica non deriva dalla somma delle caratteristiche degli individui che compongono il gruppo, ma bisogna ricercarla nelle dinamiche che si creano al suo interno. E’ necessario verificare come ciascun individuo funziona nel gruppo e non come è fatto, se ha talento, oppure se ha un certo carattere, o se è coerente ad un certo metodo di lavoro”.

    Che cosa, allora, caratterizza una squadra rispetto ad un gruppo?

    “I ruoli, che devono essere ben definiti. In funzione del tipo di gioco che si vuole fare, della tattica che si intende applicare. E’ inammissibile, ad esempio, che un terzino vada a fare la punta soltanto perché il centravanti non segna. Questo implica accettare anche i limiti, i difetti, gli errori dei compagni. Ciascun giocatore deve avere e rispettare il ruolo assegnatogli dall’allenatore, dal capo, dal vertice”.

    Iniziano i problemi per l’allenatore.

    “Il capo fa parte dei ruoli prestabiliti, il suo è quello di comandare, istituzionalmente. E’ necessario differenziare tra capo e leader. La leadership si guadagna con il consenso, si deve instaurare un’autorità morale per comandare. Il leader lo stabilisce il gruppo, non ha un ruolo assegnato, ad esempio, da un organigramma. Restando nello sport, ci sono allenatori che non sono leader e che utilizzano quelli che si vengono a creare in modo naturale all’interno del gruppo dei giocatori. Un capo perde la stima della squadra soprattutto quando non rispetta i ruoli altrui, e non quando non è un leader”.

    Quando però c’è qualcosa che non funziona è difficile rispettare i ruoli.

    “Tutto dipende dal clima creato dal vertice, dai capi, sul modo di interpretare un errore. E’ in caso di difficoltà che si vede se c’è davvero lo spirito di squadra. Quando le cose vanno bene è semplice rispettare i ruoli, quando invece vanno male si innesca un meccanismo basato sul tentativo di dimostrare la propria innocenza, tra mille alibi e giustificazioni, e la colpevolezza degli altri. Il problema di fondo è che l’errore viene visto come una dimostrazione d’incapacità e non come degli strumenti d’apprendimento”.

    Ha parlato spesso di cultura degli alibi.

    “L’alibi, oltre a distruggere l’armonia, impedisce di progredire, di imparare. E’ una situazione che nella mia esperienza ho trovato ovunque. L’errore segnala la necessità di apportare modifiche, la scusa, invece, impedisce di mettere in moto delle risorse che, a volte, non si sa neppure di avere”.

    Nel romanzo ‘I Promessi Sposi’ di Alessandro Manzoni, Don Abbondio si giustifica dicendo: “Se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Quanto contano le motivazioni?

    “Affinché i ruoli, il gruppo, la squadra funzionino è chiaro che la motivazione è un elemento fondamentale. Che non deve essere astratta, culturale o morale. Ci sono tre tipi di motivazione: quella di base, quella economica e quella della sfida”.

    In che cosa consiste la motivazione di base?

    “Fare ciò che piace. Di conseguenza, quando si costruiscono le squadre, bisogna scegliere gente a cui piace quel ruolo. In ogni modo è possibile migliorare le condizioni di lavoro, l’ambiente (ad esempio un ufficio accogliente, la comodità per raggiungere il posto di lavoro), concedere gratificazioni, al fine di rendere più soddisfatti di ciò che si svolge. In questo gli americani sono dei maestri, per quanto li riguarda: meglio si vive, più si rende. In Italia c’è un disinteresse assoluto per questi argomenti. Un buon allenatore deve cercare di mettere, se può, un giocatore nel posto in cui sa che gli piace stare”.

    La motivazione economica, invece.

    “E’ molto importante, i premi, le incentivazioni sono un ottimo stimolo. Ma diventa negativa quando si richiede di far gioco di squadra e poi il guadagno va soltanto alla proprietà”.

    Lei ha parlato di sfida…

    “Questa motivazione per me assume un ruolo fondamentale, non tanto riguardo agli impegni quotidiani, quanto ai grandi compiti. Credo che la gente, soprattutto in una società decisamente omologata come l’attuale, abbia bisogno delle emozioni, di sentirsi parte di qualcosa che va al di là della routine di tutti i giorni, di competere per un’impresa straordinaria. Questo a maggior ragione nel mondo del lavoro”.

    Come si fa ad avere la mentalità vincente?

    “A questa domanda io rispondo sempre con un paradosso: vincendo! Il problema è: come faccio a vincere? Esistono tre tipologie. La prima vittoria è quella contro i propri limiti e i difetti. La funzione del capo è fondamentale: deve porre obiettivi facilmente raggiungibili, in maniera da far fare un passo alla volta e, soprattutto, deve dare aiutare a risolvere i difetti. E poi superare le difficoltà è un allenamento. Questa è la seconda tipologia di vittoria. Le difficoltà non devono più essere viste come un qualcosa che mi impedisce di fare, ma come la possibilità di allenarmi a superarle”.

    E la terza vittoria?

    “E’ quella contro gli avversari, i concorrenti. Che va programmata: da una parte affrontando avversari che siano alla mia portata, dall’altra, contemporaneamente, confrontandomi contro i migliori, anche se perdo. Questo mi serve per stabilire un punto di riferimento alto. A volte si impara di più perdendo contro un avversario forte piuttosto che vincendo da uno debole”.