1. Per migliorare punto alla perfezione!

    23 giugno 2024 by Emiliano Adinolfi

    Quando Vanni Sartini, allenatore dei Vancouver Whitecaps, dice che il suo modo di essere allenatore riflette a pieno la sua persona non si fa fatica a capire il perché. La sua passione e il suo modo viscerale di parlare e vivere di calcio riflettono a pieno la definizione di “coach ultras” affibbiatagli dalla stampa canadese.

    vanni

     

     

     

     

     

     

     

    Alle spalle della scrivania del suo campeggia una foto con una scritta. Si tratta di un verbo in prima persona plurale, in lingua italiana: “ANDIAMO!”. E’ scritto proprio così, in stampatello maiuscolo, cercando di riprodurre il più fedelmente possibile la carica di chi quell’espressione l’ha utilizzata al termine del discorso fatto alla propria squadra a pochi minuti dal suo match d’esordio nella massima competizione americana.

    “E’ un’espressione che mi è uscita spontanea, nella mia lingua madre” mi spiegherà mister Santini. “Le telecamere l’hanno ripresa e fra i tifosi è subito diventata virale, tanto che ancora adesso mi fermano per strada urlandomi “Andiamo!”. Alcuni fra i nostri supporter hanno anche creato una linea di magliette e felpe con questa scritta. Ho partecipato con piacere a quest’iniziativa, devolvendo la mia parte di guadagno ad un’associazione della città che si occupa della cura di cani e gatti randagi. Le felpe le indosso anche in panchina, mi piacciono.”

    Mister, iniziamo inquadrando quella che è stata la tua parabola formativa e professionale che ti ha portato sulla panchina dei Vancouver Whitecaps, in MLS.

    Formativa è la parola più importante della domanda. Il primo passo verso la carriera da allenatore avvenne quando ancora giocavo nei campionati dilettantistici di Firenze, la mia città. Dopo essermi laureato ed aver conseguito un master in management dello sport, ebbi la possibilità di entrare, a 27 anni, alla scuola di Coverciano. Lavorando nel Centro studi e ricerche del Settore Tecnico ho condotto moltissime indagini sui settori giovanili in giro per l’Europa, piuttosto che sulle novità tattiche che stavano prendendo piede in altri Paesi e questo ha ampliato enormemente il mio bagaglio di conoscenze.

    Terminata la carriera da giocatore, iniziai ad allenare, restando sempre nel contesto dei dilettanti della mia città e, contestualmente, continuando la collaborazione con la scuola allenatori di Coverciano. Nel 2010 accaddero due avvenimenti che influenzarono enormemente il mio futuro da allenatore: l’istituzione del Uefa Study Group Scheme – attualmente denominato Uefa Share – un programma di scambio culturale a cui partecipai in rappresentanza dell’Italia, e la nomina di Renzo Ulivieri a capo della Scuola Allenatori. Considero Renzo il mio mentore, la persona a cui sono più grato nel mondo del calcio per il fatto di aver visto qualcosa in me. Furono anni davvero formativi, in cui allenavo fra i dilettanti ma al contempo viaggiavo per confrontarmi con i top allenatori a livello mondiale e per vedere i loro allenamenti, come feci con Klopp per esempio.

    Nel frattempo continuai a formarmi e partecipai ai corsi Uefa A e Uefa PRO dove conobbi Davide Nicola, che mi volle con sè a Livorno, dove feci prima l’analista tattico e successivamente il secondo. Alla fine del 2015 decisi di non seguire il mister nell’avventura a Bari e iniziai attivamente a cercare qualche opportunità all’estero. Nacque l’opportunità della federazione americana, che allora stava rinnovando i quadri dirigenziali per rilanciare la propria scuola allenatori, e iniziai come docente nella formazione dei nuovi tecnici a livello Pro. Questo mi aprì una nuova dimensione professionale che portò alla chiamata dei Vancouver Whitecaps, con il quale iniziai come vice allenatore e responsabile del settore giovanile, fino a che nel 2021 venni chiamato a stagione in corso ad assumere la guida della prima squadra. Inizialmente si trattava di una soluzione temporanea ma i buoni risultati raggiunti convinsero la dirigenza a confermarmi come capo allenatore. In due anni e mezzo siamo riusciti a vincere due volte la Coppa del Canada e raggiungere in due occasioni i playoff MLS, fino a quel momento mai raggiunti dal club.

    Quanto hanno influito sul tuo modo di essere allenatore il background formativo nel Centro Studi e Ricerche di Coverciano ed il lavoro svolto con i giovani?

    Il fatto che io abbia dovuto studiare ogni giorno per lavoro mi ha permesso di avere, una volta che mi è capitata l’occasione giusta, strumenti più appropriati di altri allenatori che provenivano da percorsi differenti.

    Ritengo che ogni allenatore dovrebbe avere l’ambizione di voler sapere tutto del calcio. E’ qualcosa di possibile? No, però bisogna fare il possibile affinchè lo possa diventare, studiando e formandosi su tutti gli aspetti, quello tattico, metodologico, psicologico, della comunicazione…

    La mia seconda fortuna è stata quella di poter fare il docente per gli allenatori. Nei panni di insegnante ho dovuto parlare molto, cercando di trasmettere i concetti nella maniera più chiara possibile e mettermi a disposizione degli altri. Da docente la cosa più gratificante è vedere i tuoi tecnici crescere e migliorare. Lo stesso che mi accade ora da allenatore capo.

    Se tu mi chiedessi quale sarebbe il mio desiderio una volta scaduto il mio contratto con i Vancouver Whitecaps ti risponderei che vorrei tornare a studiare come in passato in maniera ancor più approfondita.

    In che modo si concretizzerebbero questi studi?

    Ci sono molte possibilità di studio. Oggi esistono diverse fonti di informazione specifiche – penso alla rivista Il Nuovo Calcio per esempio – ma in generale credo che l’aspetto fondamentale sia l’essere aperti e portare la propria esperienza attraverso uno scambio diretto di idee e metodologie con gli allenatori. Non sono un grande amante dell’andare in giro solamente per guardare gli allenamenti. Ritengo sia molto più efficace avere l’opportunità di parlare e confrontarmi con un allenatore.

    Anzi, sono convinto che ogni allenatore Uefa Pro debba ripetere il proprio percorso di studi ogni cinque anni. Il calcio è in continua evoluzione e studiare costantemente è necessario. Bisogna studiare qualsiasi cosa, non necessariamente inerente in maniera diretta col calcio. Nel mio caso per esempio è risultato fondamentale il sapere fluentemente più lingue.

    Qual è la tua concezione di allenatore?

    Nella scuola allenatori qui negli Stati Uniti dicevamo che un allenatore dovrebbe essere un teacher, cioè un maestro, un leader ed un manager. Credo che per ogni allenatore le tre percentuali dovrebbero essere differenti e ritengo anche che debba essere aggiunta una quarta caratteristica, che è quella del filosofo.

    L’allenatore deve portare avanti questo intento attraverso il gioco e in primis lo farà insegnando la sua idea di calcio.

    Dovrà poi essere un leader, facendo in modo che la propria idea di conduzione di un gruppo possa essere recepita dai propri giocatori.

    Diventa invece un manager quando viene chiamato a dover gestire situazioni in cui la sua figura non è più in posizione di leader: penso ai rapporti con la società, la stampa, i tifosi, il direttore sportivo.

    Probabilmente l’allenatore ideale è un top nella gestione di tutti questi aspetti, ma moltissimi sono eccelsi in alcune aree e meno in altre. L’importante è che il tecnico sia in grado di compiere un esame introspettivo su dove e come deve migliorare. Al termine della mia prima stagione da capo allenatore mi accorsi che alcuni problemi che ebbi durante l’anno nascevano da una cattiva gestione dei rapporti con il direttore sportivo e con la proprietà. Feci dunque un piano di lavoro, una sorta di lista di propositi con i relativi mezzi operativi per attuarli, e questo mi ha portato enormi benefici.

    Possiamo identificare uno di questi aspetti?

    Adesso prima di ogni partita mando una mail al direttore sportivo e alla proprietà dettagliando le scelte di formazione, di sistema di gioco, il piano gara e tutto ciò che mi aspetto dalla partita. Questo ha migliorato di molto la mia comunicazione, eliminando molti aspetti che potevano creare malintesi sull’interpretazione della gestione di alcune situazioni.

    Questo lavoro introspettivo pone alla base di tutto un elemento fondamentale per una buona leadership, che è l’umiltà.

    E’ vero. Credo che sia un tratto caratteriale, ma anche un qualcosa che si può migliorare. A me ha aiutato molto il fatto di aver sempre consigliato agli aspiranti tecnici dei miei corsi di fare sempre un’autovalutazione del proprio lavoro il più formale possibile. Avendo fatto fare ad altri per anni so quanto sia importante farlo.

    Diventa fondamentale anche nella scelta dei propri collaboratori. Un bravo allenatore dovrebbe sempre scegliere collaboratori migliori di lui in determinati campi.

    Ultimamente c’è la tendenza a catalogare gli allenatori in funzione del loro stile di leadership. Come definiresti il tuo?

    La leadership è importante, ma in alcuni casi credo che venga sopravvalutata. Ultimamente nel modo di pensare del fare l’allenatore sembra che essere un leader sia la cosa più importante, quando la cosa principale rimane quella di sapere di calcio.

    Come ti dicevo in precedenza in passato ho avuto la fortuna di vedere dal vivo tanti allenatori all’opera e osservare tanti stili di leadership differenti. Non esiste una “meccanica” di leadership migliore di un altra. Ci sono però delle cose per me fondamentali che devono essere sempre presenti.

    La prima è avere una spiccata empatia. Senza empatia non si può essere allenatore.

    La seconda è che bisogna essere il più vero possibile con se stessi, essere allenatori senza recitare nessun ruolo. Io sono una persona a cui piace scherzare, connettersi, entrare in sintonia con gli altri e quindi devo riflettere questo.

    Per quanto mi riguarda ci sono aspetti caratterizzanti della persona che mi definiscono di conseguenza come stile di leadership. Per me il leader è la squadra, il team, la nostra filosofia di gioco. Non credo negli uomini forti, ma credo alle aggregazioni di persone e alla forza delle idee.

    Ci sono moltissime aree in cui l’allenatore non è il leader. Quando io alla mattina arrivo al campo d’allenamento, per esempio, mi confronto con il nostro magazziniere, che è colui che si interfaccia direttamente con il personale addetto alla cura dei campi di gioco. Una volta che gli illustro il programma d’allenamento mi convoglia su un campo piuttosto che su un altro. In quel momento è lui il leader, non io. Allo stesso modo il team manager per quanto riguarda le programmazioni delle trasferte. Sono aspetti in cui io non ci metto bocca. L’essere allenatore non mi fornisce il diritto di interferire con il loro lavoro.

    Nella gestione della comunicazione interna, è meglio personalizzare la comunicazione o è più indicato orientarla a livello collettivo?

    Non si può parlare con tutti allo stesso modo e per questo è necessario essere empatici. Ognuno ha il suo canale di comunicazione.

    Lavorare in MLS ha cambiato alcuni aspetti del tuo modo di essere allenatore?

    Moltissimi. Allenare in MLS comporta molti aspetti che rendono il lavoro differente da quello che è il modello europeo. Sostanzialmente possiamo identificare tre grandi differenze.

    La prima è quella delle regole. La composizione del roster, che  prevede un numero massimo di calciatori sotto contratto – 20 calciatori “senior” e non più di 10 con contratti ai minimi federali, posti solitamente lasciati per i ragazzi usciti dalle università o provenienti da leghe minori – e il salary cup – un tetto di spesa tassativamente non sforabile – rendono il ruolo dell’allenatore molto differente rispetto alle altre parti del mondo. In caso di necessità, prima di poter intervenire sul mercato comprando giocatori è necessario vendere. Non sempre però c’è questa possibilità, le altre squadre sono nelle stesse condizioni e il trasferimento di giocatori è dunque meno frequente.

    Alla luce di questa minor flessibilità di trasferimento rispetto alle altre parti del mondo, per me è necessario essere molto di più un maestro. Se un giocatore a mia disposizione non mi sembra inizialmente idoneo al mio progetto tecnico ho il dovere di lavorarci per recuperarlo, perché intervenire attraverso il mercato può non essere possibile.

    La seconda differenza risiede nella struttura del campionato, che non prevede retrocessioni. Questo permette all’allenatore di avere inevitabilmente più tempo per portare avanti le proprie idee e lavorare sulla propria filosofia di gioco.

    La terza è il calendario. Il campionato MLS è caratterizzato innanzitutto da trasferte molto lunghe e con cambiamenti climatici importanti. Si passa dal clima estivo della Florida al giocare a Toronto con temperature dimezzate.

    Ma l’aspetto principale è l’organizzazione del calendario stesso, che viene stilato “incastrandolo” con quelli degli altri grandi sport americani, basket e football. Quando gli impegni fra le diverse leghe si accavallano, in MLS si gioca una sola volta a settimana. Da giugno a settembre invece, quando basket e football sono fermi e si ha più possibilità di avere copertura televisiva, si giocano circa sette partite al mese, un numero di impegni che non garantisce la possibilità di allenarsi con continuità.

    Questo significa che in questa parte centrale del campionato assume moltissima importanza l’avere una consistenza tattica, un progetto di gioco solido che va implementato fin dal principio, a scapito della flessibilità tattica che ti permette di variare di partita in partita in funzione dell’avversario.

    Adesso lavoro su due sistemi di gioco e li porto avanti fino al termine, a meno di casi estremi in cui sia necessario cambiare. Quest’anno (l’inizio stagione per i Vancouver Whitecaps sarà a febbraio il primo turno di CONCACAF Champions League contro i messicani del Tigres) lavoreremo sul 4-3-1-2 e sul 3-5-2.

    L’avere un sistema base con la difesa a 3 ed uno alternativo con la linea a 4 è voluto?

    Sì, è voluto perchè cambia il modo di difendere e di costruire. Quello che vorrei mantenere sempre è il centrocampo a 3, che lo scorso anno ci ha dato grandi benefici.

    In generale però è necessario essere flessibile mantenendo intatti i propri principi non negoziabili.

    Quali sono i tuoi principi non negoziabili e quali invece quelli in cui sei più flessibile?

    Partiamo dalla flessibilità. La cosa più flessibile di tutte per me è il modulo.

    Fra le cose per me non negoziabili, la principale è il modo di difendere a zona. Trovo difficile poter cambiare questa mia convinzione in futuro, a meno che non cambino le regole stesse del gioco.  Per me bisogna difendere in funzione dello spazio, della palla, del compagno e solo alla fine dell’avversario.

    Ti spiego anche il perchè del fatto che si tratta di un principio per me non negoziabile. Prima di tutto perchè riflette un mio pensiero, una mia convinzione e non potrei mai “vendere” ai giocatori un’idea differente da questa. Secondariamente perchè con la difesa a zona sei in controllo anche quando difendi, sai sempre come posizionarti e in che circostanza farlo. In ultimo, una volta riconquistata palla, ci troveremmo tutti sempre in posizione, mantenendo inalterata la nostra struttura prestabilita.

    Potrei aggiungere che riflette anche una parte “umana” del mio modo di essere. Per me il collettivo conta più dell’individuo.

    Non demonizzo chi ha idee differenti dalla mia, si tratta di dover fare delle scelte, sapendo che nel calcio si tratta di avere una coperta che ti copre per tre quarti e che da una parte o dall’altra qualcosa concedi. Con la scelta della difesa a zona noi ci precludiamo il fatto di essere ultra aggressivi nell’ultimo terzo di campo per non derogare sulla compattezza, per esempio, o la possibilità di effettuare un numero maggiore di anticipi per il fatto di non muoverci prima che parta la palla.

    Queste tue parole mi portano a quanto ha più volte ripetuto mister Ulivieri alle lezioni del corso di Coverciano, secondo cui il calcio moderno ha preso una direzione secondo cui si va sempre più verso una costante alternanza di difesa a uomo e difesa di reparto all’interno di ogni partita.

    Verissimo, molte squadra già lo fanno portando una difesa a uomo nella metà campo avversario e a zona nella propria.

    Ci sono alcune prerogative della mia squadra per cui però io preferisco non farlo.

    Considerando lo stereotipo sulla scarsa cultura tattica americana mi viene spontaneo chiederti se hai trovato difficoltà nel trasferire ai tuoi giocatori i principi della difesa di reparto.

    Sì e no. Sì perchè ho dovuto cambiare le abitudini di molti giocatori che fino a quel momento non erano abituati a fare certi tipi di movimenti o di pensieri. No, perchè se sei convinto di ciò che fai e ciò che dici, non ci metti tanto tempo a farlo.

    Si tratta di un processo e come tutti i processi richiede tempo, quanto dipende dalla qualità del lavoro, dalla qualità delle informazioni che si forniscono ai giocatori e dalla loro predisposizione all’apprendere.

    Hai un metro di giudizio per valutare l’apprendimento?

    Il modello di gioco è il metro di giudizio. Prima di tutto ci tengo a precisare che per me il modello di gioco è differente dall’idea di gioco.

    L’idea è il concetto generale, il modello è molto più specifico, a che ha fare con ciò che puoi e non puoi fare con i giocatori a disposizione. E’ un documento che deve essere dettagliato in tutti gli aspetti.

    Il modello di gioco rappresenta la perfezione del calcio che vorremmo e il comportamento e le conoscenze dei giocatori rapportate al modello di gioco che stiamo implementando ci fornisce la misura del loro miglioramento nel tempo.

    Quando sei stato chiamato per guidare i Whitecaps hai ereditato una situazione piuttosto complicata. La squadra stava facendo molto male e si trovava in penultima posizione. Dopo il tuo avvento i Vancouver sono stati, classifica parziale alla mano, la migliore squadre dell’MLS guadagnandosi il primo storico accesso ai playoff del club. Quali tasti hai toccato?

    Innanzitutto credo di essere stato facilitato dal fatto di essere stato il vice allenatore della squadra l’anno precedente. Conoscevo già il 60% circa della squadra e dunque avevo già un’idea di ciò che secondo me doveva essere cambiato.

    Ho deciso di fare le cose per gradi e la prima cosa su cui ci siamo concentrati è stata il modificare un aspetto del 4-3-3 impostato dal mio predecessore. Agli esterni molto larghi, posizionamento che rendeva le distanze fra gli attaccanti molto dilatate, ho preferito due trequartisti centrali che potessero fornire linee di passaggio più vicine e maggiore densità in fase di non possesso. In settimana abbiamo studiato due soluzioni offensive e ho avuto fortuna: due dei quattro gol che segnammo nella mia partita d’esordio furono segnati grazie ai movimenti preparati in settimana. Il giorno dopo erano tutti famelici di avere informazioni tattiche.

    In quel momento avevo la convinzione che quella squadra dovesse cambiare sistema per giocare con la difesa a tre ma decisi di non essere troppo invadente e, pur avendo dato durante gli allenamenti qualche prima infarinatura di 3-5-2, la partita successiva riconfermai la formazione della domenica precedente. Il primo tempo fu deludente, eravamo sotto 1-0 così all’intervallo decisi di rischiare e mettere in atto le mie convinzioni, passando al nuovo modulo. Ribaltammo la partita e da quel momento è iniziata con i miei giocatori una sorta di luna di miele in cui recepivano tutto ciò che io gli proponessi.

    Al tuo arrivo hai posto alla squadra degli obiettivi?

    No. Per me l’obiettivo è giocare ogni domenica sempre meglio e cercare di vincere tutte le partite.

    Lunedì inizieremo la stagione e il mio primo discorso non avrà a che fare con obiettivi in termini di risultati o di classifica, ma di miglioramento di noi stessi.

    Cerco sempre di porre il focus su noi stessi, avvalendomi dei tanti nuovi mezzi che adesso ci sono a disposizione, come i dati per esempio. Mi reputo un fanatico della data analysis.

    Quali sono i dati che ti interessa maggiormente osservare?

    I dati principali sono gli expected gol e gli expected threat.

    Poi osservo dati che descrivono la maniera in cui creiamo o subiamo occasioni da gol, piuttosto che quelli per misurare la nostra intensità di pressing.

    Considera che la nostra proprietà ha fatto fortuna con i software di dati pertanto puoi immaginare quanto la società ci creda. Li utilizziamo molto anche nelle situazioni di palle inattive, non solo attraverso la valutazione dei parametri di xG, ma anche con indici che ci permettono di valutare quante volte e con quale efficacia i nostri giocatori eseguono i movimenti prestabiliti.

    Il dato non cambia la valutazione e l’analisi della partita, ma nel lungo periodo fornisce informazioni utili sull’identità della tua squadra e sugli aspetti da migliorare.

    Cosa importeresti del modello calcistico americano in Italia?

    Qui in America è piuttosto diffusa la figura dell’head of performance, una figura che coordina tutte le aree, che non da supporto da un punto di vista tecnico ma che assume il ruolo di capo del personale, togliendo molti compiti gravosi all’allenatore.

    Culturalmente invece il fatto che c’è molta più formalità nel preparare le cose. Qui prima di ogni seduta di allenamento è consuetudine fare una riunione con tutti i membri dello staff per metterli al corrente di ciò che si andrà a fare in campo e non parlo di staff tecnico, con il quali mi confronto “privatamente”, ma di staff allargato, con fisioterapisti, magazzinieri e tutti gli altri componenti. E’ un qualcosa che da responsabilità e rispetto dei ruoli.

    Infine mi piacerebbe che in Europa ci fosse il salary cap. Renderebbe le competizioni molto più equilibrate, fornendo a più squadre la possibilità di essere competitive.

    fonte Areacoach 2024

     


  2. Forza funzionale nel calcio

    13 novembre 2022 by Emiliano Adinolfi

    La forza muscolare nello sport è intesa come la capacità di vincere o di opporsi ad una resistenza esterna.
    Ma perchè è così importante l’allenamento della forza nel gioco del calcio?
    I motivi sono molteplici, ma di seguito ci focalizzeremo su tre presupposti fondamentali:

    1. Incrementare le proprie capacità di prestazione; come ad esempio aumentare la forza nel salto, nel calcio, nel lancio e soprattutto nell’accelerazione.
    2. La profilassi degli infortuni
    3. Il trattamento della postura

    La forza muscolare deve essere considerata come un’abilità, che per essere migliorata deve chiaramente essere soprattutto allenata.Per far ciò, bisogna focalizzarsi sulla quantità di tempo reale dedicata all’allenamento di quest’ultima, durante le nostre sessioni.
    Nel tempo si è passati dall’utilizzo sfrenato delle macchine di muscolazione (dove si ricercava l’isolamento muscolare per poter potenziare ogni singolo muscolo), al solo lavoro in campo con il pallone. Ci sono state però nuove validazioni scientifiche, che hanno consentito il passaggio dai lavori a contrazioni eccentriche, concentriche e isometriche, a macchine isoinerziali o con resistenza auxotonica. Tutto molto utile e “funzionale”, ai fini dell’adattamento muscolare.

     

    allenamento-a-follo-palestra-26935

     

     

     

     

     

     

    In questo approfondimento ci soffermeremo dunque, sul significato di allenamento funzionale e di conseguenza di forza funzionale nel calcio, dove quest’ultima non si manifesta in forma pura, ma è associata ad altri fattori condizionali, organico-muscolare e coordinativi della performance.

    Definizione di functional training

    Secondo l’American Council on Exercise, per allenamento funzionale si intende un insieme di movimenti integrati multiplanari, che coinvolgono l’accelerazione (produzione di forza), la decelerazione (riduzioni di forza) e la stabilizzazione delle articolazioni, con la finalità di migliorarne l’abilità dei movimenti, la forza dei muscoli stabilizzatori del tronco e l’efficienza neuromuscolare.

    Il corpo umano non è costituito da unità a sé stanti indipendenti tra loro, ma da sistemi che interagiscono continuamente per poter ottimizzare e garantire il movimento in maniera produttiva, sia in termini di sicurezza che di efficacia. Quindi questa tipologia di allenamento, coinvolge intere catene muscolari e non singoli gruppi, stimolandone dunque il controllo del corpo.

    Per quanto riguarda il calcio, l’allenamento funzionale ha un ampio campo di applicazione. Il suo fine è quello di massimizzare la performance di forza, focalizzandosi nello stesso tempo su equilibrio, simmetrie, flessibilità e core stability. È fondamentale dunque allenare il movimento piuttosto che il singolo muscolo.

     

    La forza nel calcio si esprime in diverse forme specifiche, come ad esempio le accelerazioni seguite da cambi di direzione o arresti, dagli stacchi di testa e dai contrasti. Sono tutti stimoli che influenzano l’economia di corsa e la stabilità dell’atleta, ma soprattutto ne influenzano il gesto tecnico.

    A mio avviso è dunque corretto lavorare sempre su tali stimoli, affinché si possa arrivare ad un miglioramento delle espressioni di forza non solo mediante allenamenti funzionali. Il consiglio è quello di non limitare i nostri atleti a situazioni create in maniera improvvisata, ma di portarli verso comportamenti dettati dal contesto di gioco, in modo tale che in gara la risposta muscolare all’imprevedibilità dei nostri atleti risulti più veloce, funzionale e repentina possibile.

    fonte football player functional training calcio


  3. Alimentazione per un calciatore

    13 giugno 2019 by Emiliano Adinolfi

    cr7

     

     

     

     

     

     

    Il momento è delicato. Già, non siamo davanti al più lieto degli incipit, semplicemente di mezzo c’è la realtà. Nuda e cruda. Perché in Serie A, e più in generale nel calcio italiano, qualcosa non funziona come dovrebbe. Questione di tattica e vittorie? Non proprio, anche se i risultati del campo sarebbero la logica conseguenza del tema che – per primi in Italia – abbiamo deciso di portare finalmente alla ribalta: ovvero quello dei troppi e ingiustificati infortuni nel nostro campionato.Nel frattempo, però, nell’ultima giornata di campionato altri giocatori sono usciti dal campo con problemi fisici: da De Rossi agli altri giallorossi Pellegrini e Strootman, passando per Borriello, Grassi, Kalinic, Belotti e infine El Shaarawy proprio qualche ora fa. Nel primo articolo avevamo spiegato come gli infortuni dipendono dai troppi chilometri percorsi dai giocatori rispetto alla biologia umana. In particolare la miglior performance, farà strano leggerlo, si ottiene con molte meno ore di allenamento e con una maggiore intensità e qualità. Il tutto seguito e accompagnato da un adeguato recupero. Una condizione praticamente impossibile in un calcio così ricco di impegni e in una cultura dove – sbagliando – si pensa che i risultati si ottengano solo col duro lavoro. E a proposito, a certificare il tutto abbiamo deciso di dare spazio a una testimonianza recente. Una posizione netta e presa direttamente da Coverciano, ovvero quella di Giorgio Chiellini: “Il calcio si sta evolvendo e si va ancora più forte di anni fa perché tutto si è livellato rispetto al passato. Gli infortuni sono una conseguenza. I grandi capi decideranno cosa fare, ma si sta giocando un po’ troppo”. Ma se giocare è giustamente obbligatorio, la stessa affermazione non si può fare per gli allenamenti in settimana, troppo pesanti e inutili ai fini della perfetta forma fisica. E oggi, per andare ancora più nel dettaglio, abbiamo deciso di trattare il tema dell’alimentazione ideale per un calciatore. Attenzione, nessuna dieta e nessun regime da inventare, semplicemente in tavola scende lo stile più naturale e congeniale al genoma dell’essere umano. Scopriamolo assieme.

    con noi ha deciso di partecipare anche Claudio Tozzi, il più grande esperto di preparazione atletica sulla forza in Italia e autore di BIIOSystem, libro bestseller sull’allenamento. Tra gli allievi di Tozzi, oltre a numerosi sportivi, c’è stato anche Tiberio Ancora: attuale consultant personal trainer/nutritionist del Chelsea e uomo fidato di Antonio Conte. Non proprio un allenatore e una squadra a caso, perché il modello di allenamento Blues è uno dei pochi ad avvicinarsi alla perfezione. Come? Allenando in maniera accorta e senza sottovalutare nessun aspetto. Dal riposo, complice anche il sistema della Premier League che lascia alle squadre due giorni ‘off’, all’alimentazione. Inevitabile, dunque, partire con la più classica delle domande in materia: Claudio, ma è ma è vero che senza pane e pasta non si avrebbe l’energia per i 90 minuti? “Per rispondere voglio fare una premessa doverosa, quella relativa al valore e all’incremento del VO2max, ovvero il massimo volume di ossigeno consumato per minuto. Una misura globale integrata della massima intensità di esercizio che un soggetto può tollerare per periodi di tempo abbastanza lunghi. Un parametro biologico che esprime il volume massimo di ossigeno che un essere umano può consumare nell’unità di tempo per la contrazione muscolare. In breve, più questo valore è alto nello sportivo, più l’atleta resiste alla fatica e ha maggior grado di resistenza. Attenzione però, è provato che l’allenamento può essere un fattore migliorativo solo in piccola parte”. E allora qual’è l’altro fattore determinante? “L’alimentazione.Infatti è stato scoperto come nelle popolazioni e nelle persone che non mangiano cereali (pasta in particolare, pane e farinacei contenenti glutine), zuccheri, legumi e latticini il VO2max può aumentare addirittura del 20/30/40%, il tutto a parità di allenamento, o addirittura senza fare attività fisica. Questo senza che ci sia una differenza o un maggior stimolo muscolare. Semplicemente mangiando. Questo valore più è alto e più l’atleta avrà una prestazione forte e sana. Ovviamente un più alto livello basale di VO2max è dettato dalla genetica, ma con l’allenamento (quello giusto, pesante ma con molto riposo) allora si può alzare la soglia“. E allora qual è, nel calcio, la miscela ideale tra dieta e riposo per incrementare questo valore e rendere più performante un giocatore? “Si dovrebbe prevedere almeno 2 volte a settimana di riposo totale, di stacco anche dal campo di allenamento. Non è fantascienza, è roba che fanno già in Premier League, dove guarda caso le squadre hanno meno infortuni e corrono senza sosta per tutti i 90 minuti. L’ossigeno dà la prestazione e resistenza alla fatica, e se il suo valore scende allora il muscolo va in crisi, s’indebolisce e aumenta la probabilità di infortuni, crampi e stanchezza. Il corpo quando ha una maggiore quantità di ossigeno ti dà più resistenza alla fatica, e questo – oltre al talento – è quello che fa la differenza tra un campione e un giocatore normale”. Ma quindi si può ottenere energia senza pasta e i soliti carboidrati?“Assolutamente sì. Gli alimenti acidi (soprattutto la pasta, magari ancor più acidificata dalla classica passata di pomodoro) e gli zuccheri indeboliscono i muscoli, riducono e alterando i processi di ossigenazione. Non solo, cibi acidi e con glutine (in particole nei soggetti intolleranti/sensibili al glutine e non solo) possono rilasciare una proteina (la Zonulina) che rompere le “giunzioni serrate” nel rivestimento intestinale, creando un intestino permeabile: favorendo l’insorgere di affaticamento cronico e bloccando il passaggio dei nutrimenti buoni ai muscoli. Aumentando quindi la possibilità di infortunarsi“.

    Questa scoperta è dimostrata dagli studi del ricercatore italiano Alessio Fasano dell’università di Baltimora Ma allora – per esempio – la classica ‘crostata con la marmellata’ prima della partita può inficiare sulla prestazione? “Certo. Anzitutto è una sostanza acida e con glutine (proprio come la pasta), e quindi interferisce sul valore di ossigeno nel corpo e aumenta la probabilità di debolezza. Aumentare il grado di assunzione di zucchero vuol dire che nella prestazione il corpo umano comincia ad utilizzarli come carburante preferito a discapito dei grassi. Ma il glicogeno intramuscolare, cioè la quantità di zucchero che puoi immagazzinare nel fegato nei muscoli, ben che vada non dura più di un’ora. Motivo per cui la maggior parte delle squadre cala dopo il 60’’ del secondo tempo. Col passare dei minuti il corpo dovrebbe andare avanti utilizzando grassi e proteine, ma siccome durante l’anno l’atleta ha mangiato prevalentemente zucchero e cibi acidi non ha grassi sufficienti e crolla in bambola perché li ha consumati in poco tempo”. E quindi, cosa si dovrebbe mangiare? “Beh, in Italia forse è tabù dichiarare quanto segue: ovvero che le proteine e i grassi dovrebbero essere gli alimenti prevalenti nella dieta di uno sportivo e non solo, eliminando così pasta, pane farine e latticini. Semplicemente mangiando e sostituendoli col cibo che l’uomo è abituato a reperire da sempre: frutta (zuccheri comunque ricchi di minerali e con effetto alcalinizzante, non acido ma basico), carne, pesce, uova e proteine. Magari può essere buona cosa utilizzare gli zuccheri entro un’ora dalla fine della partita, con l’obiettivo di ricaricare il glicogeno perso durante la gara. Zuccheri con proteine però, dalle banane e le patate al pollo e il pesce. Oppure il riso, un carboidrato quanto meno privo di glutine. Un po’ come ha fatto Conte dalla Nazionale al Chelsea, eliminando glutine e zuccheri, aumentando così il livello di ossigeno (maggiori prestazioni e diminuendo gli infortuni). Questi alimenti naturali la natura ce li offre da sempre, soltanto negli ultimi 10.000 anni l’ uomo ha introdotto l’ agricoltura (per motivi non ancora ben chiari) che ha portato all’ utilizzo anche di “nuovi cibi” come i cereali, i legumi, latte e derivati, mai ingeriti in precedenza da nessun essere umano. Certo, per riconfigurare i nostri geni sui nuovi alimenti il nostro organismo dovrebbe farcela in almeno 20.000/30.000 anni, ma ci sarebbe un piccolissimo problema: ne sono passati “solo” 10.000…”. La dieta della Nazionale di Conte e dei Blues quindi privilegia l’asse proteine della carne – zuccheri della frutta e lascia in panchina i carboidrati forniti dal pane e dalla pasta. Niente abbuffate, ma tanti piccoli pasti durante la giornata. Emblematico, inoltre, il caso del giocatore della Germania e dello Schalke 04 Leon Goretzka, che in passato ha dovuto saltare molte partite per infortunio. Di recente però, seguendo una dieta priva di glutine, latticini, carne di maiale e noccioline, ha giocato quasi tutte le partite.

    Ovvio, il talento, la tattica e la motivazioni sono alla base per vincere, ma sicuramente cercando di cambiare o quantomeno approfondire l’aspetto dell’alimentazione e del recupero si potrebbero prevenire la maggior parte degli infortuni e dei cali fisici durante le partite. Cibo e riposo. E di modelli buoni ce ne sono, dal Chelsea di Conte fino al Barcellona degli ultimi anni: una squadra che addirittura non faceva la preparazione pre campionato. Sì, nella prossima pubblicazione scopriremo il metodo di Seriul Lo, ex preparatore dei blaugrana e uomo fidato di Guardiola. E soprattutto parleremo anche di come gli infortuni siano Vitamina D correlati. Sì, questo argomento, praticamente sconosciuto, è sicuramente uno dei segreti per rinforzare in maniera naturale la salute di ossa e muscoli. “La Vitamina D, prodotta naturalmente dal sole, nei periodi invernali è in forte calo in tutti noi. La Sampdoria so per certo che integra ai propri giocatori dosi di Vitamina D, appunto per migliorare le performance e ridurre il rischio di infortuni. In particolare, gli studi dimostrano che un calciatore su tre ne è carente. Ma, sinceramente, penso quello della Samp sia un caso davvero raro”.Perché sì, il momento è delicato, ma forse ne potremo venire finalmente a capo. Magari in una Serie A con molti meno giocatori infortunati.


  4. Infortuni nel calcio

    30 maggio 2019 by Emiliano Adinolfi

    radja_01

     

     

     

     

     

     

    Dalla carenza di Vitamina D a una cultura dell’alimentazione da cambiare, ecco l’intervista a Claudio Tozzi – esperto di preparazione atletica – per capire il motivo dei numerosi infortuni nel calcio italiano: “Farà strano leggerlo, ma la miglior performance si ottiene con molte meno ore di allenamento e con una maggiore intensità e recupero”

    Il momento è delicato. Già, non siamo davanti al più lieto degli incipit, semplicemente in Serie A, e più in generale nel calcio italiano, qualcosa non funziona come dovrebbe. Questione di tattica e vittorie? Non proprio, anche se i risultati del campo sarebbero la logica conseguenza del tema che abbiamo deciso di portare alla ribalta: ovvero quello dei troppi infortuni nel nostro campionato. Anche se, forse, come sosterrebbe la stragrande maggioranza degli addetti ai lavori, è soltanto colpa del caso. Della serie: ‘Siamo perseguitati dalla sfortuna. Forse dobbiamo lavorare di più…’. Abbiamo deciso di andare oltre, facendoci strada nel nostro viaggio grazie al migliore degli alleati: la biologia umana. Non solo, con noi ha deciso di partecipare anche Claudio Tozzi, il più grande esperto di preparazione atletica sulla forza in Italia e autore di BIIOSystem, libro bestseller sull’allenamento. Tra gli allievi di Tozzi, oltre a numerosi sportivi, c’è stato anche Tiberio Ancora: attuale Consultant Personal Trainer/Nutritionist del Chelsea e uomo fidato di Antonio Conte. Non proprio un allenatore e una squadra a caso, perché il modello di allenamento Blues è uno dei pochi ad avvicinarsi a quello che, sin dal Paleolitico, ci ha imposto madre natura.

    La sfortuna c’entra poco, molto poco
    Attenzione, meglio fare una premessa doverosa: la componente del caso a volte ci mette lo zampino. Roba imprevedibile. “Certo, quando l’avversario ti entra col piede a martello, quando sbatti la testa, allora lì c’è poco da fare. Ma questi sono da chiamare semplici incidenti di gioco, che tra l’altro capitano con meno frequenza nel corso di una stagione rispetto agli altri infortuni (dagli strappi ai crociati che saltano, passando per stiramenti e contusioni varie). Qui, invece, la componete della sfortuna non c’entra proprio nulla”, spiega Claudio Tozzi. Entriamo quindi nel dettaglio, dentro il nostro corpo: “Gli infortuni dipendono dai troppi chilometri percorsi dai giocatori rispetto alla biologia umana. In particolare la miglior performance, farà strano leggerlo, si ottiene con molte meno ore di allenamento e con una maggiore intensità e qualità. Il tutto seguito e accompagnato da un adeguato recupero e riposo”. Ed è proprio il concetto di riposo quello più trascurato.

    Con il corpo umano non si scherza
    Noi siamo delle creature intelligenti. E non è solo una questione di cervello e pensiero, ma anche motoria: “Sì, il nostro corpo ci dà sempre dei segnali. Dei campanelli di allarme”. Ok, ma il fisico di un calciatore di Serie A non dovrebbe essere sempre in forma, sempre ben allenato? “Già, è proprio qui che casca l’asino: ci insegnano, dalle facoltà di Scienze Motorie, che più ci alleniamo, più corriamo, più fatichiamo e più saremo performanti. In fondo tutta la Serie A fa così. Più lavori, meglio è, più correrai in settimana e meno infortuni avrai”. Beh, chiaro: “E invece no, ma non lo dice Claudio Tozzi, lo dice la biologia umana: il nostro corpo è un retaggio di milioni di anni di evoluzione in cui non ha mai corso tanto come i calciatori. Il nostro retaggio è fatto per raggiungere un massimo giornaliero di 10/15 chilometri al giorno, ma non di scatti, ma di camminata moderata. Questo per chiunque. E’ chiaro, poi, che ci sono delle persone con una maggiore resistenza delle altre”. Ma nel concreto, l’evoluzione quanto e come ha sviluppato la forza e la capacità di resistenza alla sforzo dell’uomo? “A questo proposito faccio riferimento ad uno studio del 2013: ‘Gli atleti olimpici devono allenarsi come nel paleolitico?’ pubblicato sulla rivista “Sport Medicine” (agosto 2013) e redatto in collaborazione tra le Università di scienze motorie di Brasilia (Brasile), La Coruña/Vigo/Leoia (Spagna) e Santiago del Cile (Cile).

    Overtraining
    In pratica i ricercatori propongono il fatto che gli atleti sono tutti homo sapiens e suggeriscono che gli adattamenti dell’allenamento sono potenziati se lo stimolo è molto simile al modello di attività degli antenati umani”. E com’era questo stimolo? “Intenso e infrequente. Nello specifico è dimostrato che nel paleolitico l’uomo percorreva 10-15 km, con una stima di energia misurata di circa 3.000-5.000 kcal/giorno. Questo approccio è in accordo con recenti studi che hanno descritto un risultato migliore di allenamento nei soggetti che regolavano il loro carico di allenamento, a seconda dello stato del loro sistema nervoso autonomo”. Ma i nostri calciatori come si allenano? “Normalmente in una partita un giocatore di movimento compie circa 7-13 km a partita. Ma le squadre di serie A che fanno le coppe giocano anche tre partite a settimana, quindi un calciatore può fare 21-36 km a settimana, più tutti quelli percorsi in allenamento. In realtà non sarebbe nemmeno questo un gran problema, in quando all’epoca ci riposavamo per circa 7-15 giorni, il tempo di rigenerare mente, muscoli e articolazioni”. Già, ma al giorno d’oggi è tutta un’altra storia: “Nel calcio moderno sembra impossibile che ci si fermi forse anche solo per un giorno, figuriamoci una settimana o due. Nessuna squadra lo potrebbe fare, o forse sì se si allenasse principalmente col pallone. Provando tecnica, schemi, situazioni di gioco, tattica e posizioni in campo. Ah, c’è un altro concetto sottovalutato (nonostante sia di una banalità assurda): una partita di Serie A, ma anche di Terza Categoria come di Champions League, è già di per sé un allenamento. E anche bello intenso. Per questo è inspiegabile l’idea degli allenatori, in particolare dopo le sconfitte, di bacchettare i propri ragazzi con ulteriori sessioni fisiche”.

    Perché saltano tutti questi crociati?
    In effetti, alla luce della classica cultura del lavoro e del sudore, fa specie pensare al volume troppo alto di allenamento come principale causa degli infortuni sportivi. Tuttavia, oltre a quanto detto sopra riguardo la sentenza della biologia umana, è un attimo capire come un calciatore possa oltrepassare i propri limiti fisici: “Dal lavoro atletico giornaliero, magari in doppia seduta, contando le tre partite settimanali tra campionato-coppa europee-coppa italia-amichevoli è ovvio che i km percorsi, fatti in prevalenza di scatti, senza mai riposare, possano solo provocare affaticamenti e traumi”. Anzi, “l’infortunio è il modo del nostro organismo per dirci che ci stiamo allenando troppo. Non potendo dircelo a voce, ‘manda’ il dolore a qualche muscolo e/o articolazione a comunicarcelo, quasi a farci capire: “adesso ti faccio fermare per forza cosi non insisti a correre ancora”. Le sessioni quindi, soprattutto quelle a stagione in corso, non devono essere dure, ma semplicemente efficaci.

    L’esempio di Milik
    Di mezzo, certamente, ha un ruolo chiave la genetica e il fisico del giocatore in questione. Ultimo il caso di Milik, all’interno di un Napoli al primo posto in Europa nella classifica delle squadre con meno infortuni. E quindi Claudio, come si spiega il caso del polacco? “Milik avrebbe bisogno di un lavoro specifico, differente. Probabilmente i suoi muscoli andrebbero rinforzati, magari le sue articolazioni andrebbero studiate a fondo. Una squadra non è un esercito di soldatini. Tutti i giocatori, atleticamente parlando, si allenano allo stesso modo. Ci sono giocatori che nel corso di tutta la carriera non hanno mai avuto infortuni, altri che sono perseguitati. Muscoli deboli o deviazione della colonna vertebrale inficiano sull’angolo di appoggio delle ginocchia. Potrebbe essere il motivo dei problemi di Milik. O forse Arkadiusz è il ragazzo più sfortunato al mondo, ma non credo. Il ginocchio sta sotto la coscia, se quest’ultima non è abbastanza muscolosa non lo protegge”, spiega Claudio Tozzi. “E guarda caso i calciatori più muscolosi (con i quadricipiti possenti) sono quelli che subiscono meno traumi e infortuni”.
    Cosa andrebbe cambiato in Italia?
    Qualche concetto differente e chiarificatore, grazie al prezioso contributo di Claudio Tozzi, inizia ad emergere. Ovviamente il tutto certificato dalle prove della letteratura scientifica. Ma c’è di più. Insomma, è giusto tirare fuori qualche esempio concreto che si unisca a questa scuola di pensiero. In apertura vi abbiamo raccontato del modello Chelsea, guidato da Antonio Conte e preparato fisicamente da Tiberio Ancora (in seguito ne sveleremo i segreti nel dettaglio), ora però ci spostiamo in Spagna. In Liga, la terra del campionato più spettacolare al mondo. Dove la preparazione precampionato… non esiste. Sì, avete capito bene: non la fanno. Per credere, basta chiedere a Paco Seriul Lo – responsabile nell’era di Frank Rijkard della preparazione fisica del Barcellona e poi di quella di Guardiola al Bayern Monaco: “Ci sono molti miti per quanto riguarda la forma fisica del calcio. Uno è il riscaldamento; un altro il precampionato; il terzo, i pesi. Bene, sono per me tre questioni chiave. Ma il precampionato è il più grave. Penso che sia impossibile, in un mese, riempire il serbatoio di un giocatore per un’intera stagione. Impossibile. I preparatori, invece, continuano a puntare sull’importanza del precampionato dal punto di vista fisico. Fare allenamenti doppi e tripli per due settimane non è utile ai giocatori. La conseguenza è un affaticamento che pagheranno per le prime cinque partite di campionato, se sono fortunati. Per me è necessario prepararsi esclusivamente per la prima partita del campionato. Poi per la seconda … e così via. La preparazione fisica va fatta utilizzando il pallone da calcio. Ma parlare esclusivamente di preparazione fisica è un concetto sbagliato. La questione non è avere maggiore forza nelle gambe, ma adattare la forma fisica al gioco del calcio. Altrimenti si rischiano lesioni, dovute a una cattiva preparazione”. Quel Barcellona si divertì a vincere ogni trofeo immaginabile. Senza infortuni e con una forma fisica sempre perfetta. Dalla preparazione al riscaldamento: “Per noi il riscaldamento serve solo per entrare in contatto con i tuoi compagni e con l’ambiente. Questo è lo scopo principale del riscaldamento. Io ho visto mille volte disputare partite senza riscaldamento, senza che nessuno si facesse male. Giocare con il pallone, quindi, non è un problema”. Dal preparatore atletico del Barcellona alle leggende del campo. Scomodando un attimo Cruyff, che si riscaldava solo palleggiando. Oppure Maradona, memorabile la sua danza nel 1989 sulle note di Live is Life sparate a tutto volume nell’Olympiastadion di Monaco.

    Modelli funzionali
    E scattare un’istantanea su Maradona vale davvero la pena. Tralasciamo per un attimo il talento divino del Pibe de Oro, per caso ricordate le sue cosce? Enormi, grosse, tozze e muscolose. Semplicemente funzionali. Perfette per il calcio. Due gambe forti e dotate di quadricipiti massicci, utili a supportare qualsiasi movimento anomalo. Ed ecco la prova del nove: ricordate qualche infortunio grave occorso a Maradona nella sua carriera? Praticamente nessuno. Certo, il 24.09.1983 Andoni Goikoetxea Olaskoaga, difensore dell’Athletic Bilbao, gli entrò terribilmente sulla caviglia sinistra, causandogli la perdita del 30% della mobilità del piede mancino. Sì, questa è la proverbiale sfortuna. Quella che rischia di rovinare le carriere dei campioni. E guarda caso i calciatori più muscolosi (con i quadricipiti alla Maradona) sono quelli che subiscono meno traumi e infortuni. Esemplificativo il caso di Cristiano Ronaldo e del suo fisico statuario. Allenato, sì, ma tenuto spesso a riposo: “A Valdebebas Cristiano Ronaldo si immergeva nelle vasche di acqua ghiacciata alle tre del mattino, anche se c’era Irina (Irina Shayk, la sua ex fidanzata) a casa ad aspettarlo. La sua cura per il fisico è incredibile”. Queste furono le parole di Carlo Ancelotti, che con quel Real Madrid vinse tutto, seppur allenandosi meno del normale: “L’allenamento è importante, ma bisogna dosarlo bene. In Spagna si dice così: troppa acqua uccide la pianta. Ed è così anche per gli allenamenti. Ci si può allenare duramente, ma poi bisogna dare al corpo la possibilità e il tempo di recuperare. Io non sono un allenatore che uccide i giocatori durante gli allenamenti”.
    Realtà
    E invece no. Doppie sedute, pochissimi scarichi e tanta corsa, la Serie A è abituata a questo sistema. Da sempre. Per non parlare dei pesi, fondamentali per il potenziamento dei calciatori: “Che per essere efficaci devono essere pesanti, ma non vengono mai fatti per paura che i giocatori si facciano male: invece in Italia si prediligono gli estenuanti percorsi con i pesi leggeri, inutili al potenziamento muscolare. Ma questa è un altra storia e ne parleremo in un articolo a parte”. Perché con Claudio Tozzi, autore del libro più venduto in Italia legato alla preparazione nel mondo del fitness, di argomenti da trattare ce ne saranno ancora. E prima di arrivare al nostro modello, quello dell’Italiano vincente, quello di un Antonio Conte che grazie ad un’intelligente alimentazione e con l’aumento del riposo e la predilezione al pallone ha stupito ovunque, è giusto portare alla luce il metodo vincente di Guardiola. Ovvero lo stesso che Claudio Tozzi ci ha snocciolato in questo approfondimento. Esemplificative le parole di Rumeniggue quando visionò il primo allenamento del Bayern Monaco targato Pep: “Nessuna corsa continua, nessuna serie di 1.000 metri (esercitazione d’obbligo per la nostra Serie A, ma completamente inutili ai fini della preparazione di un giocatore di calcio), nessun circuito di sollevamento pesi, nessuna sessione atletica. La squadra svolgerà sempre tutti gli allenamenti nel campo da calcio e non vedrà mai le piste di atletica”. Ah, qualche settimana fa – dopo l’incidente di Aguero – Pep ha confermato il tutto: “L’infortunio di Aguero avvenuto nel giorno libero? Sinceramente penso che il giorno libero serva per essere felici – ha chiarito Guardiola -. Io voglio che i miei giocatori lo siano. Anch’io, che sono il manager, non amo gli allenamenti tutti i giorni perché penso che i calciatori abbiano bisogno di riposare sia fisicamente che mentalmente, in modo che possano anche godersi la loro vita. Io voglio che i miei giocatori si divertano, quindi se decidono di andare ad Amsterdam per me non c’è alcun problema”.

    L’alimentazione per non infortunarsi
    Una posizione netta e presa direttamente da Coverciano, ovvero quella di Giorgio Chiellini: “Il calcio si sta evolvendo e si va ancora più forte di anni fa perché tutto si è livellato rispetto al passato. Gli infortuni sono una conseguenza. I grandi capi decideranno cosa fare, ma si sta giocando un po’ troppo”. Ma se giocare è giustamente obbligatorio, la stessa affermazione non si può fare per gli allenamenti in settimana, troppo pesanti e inutili ai fini della perfetta forma fisica. E oggi, per andare ancora più nel dettaglio, abbiamo deciso di trattare il tema dell’alimentazione ideale per un calciatore. Attenzione, nessuna dieta e nessun regime da inventare, semplicemente in tavola scende lo stile più naturale e congeniale al genoma dell’essere umano. Scopriamolo assieme.
    Ci vuole un fisico…bestiale e alcalino
    Tra gli allievi di Tozzi, oltre a numerosi sportivi, c’è stato anche Tiberio Ancora: attuale preparatore atletico del Chelsea e uomo fidato di Antonio Conte. Non proprio un allenatore e una squadra a caso. Dal riposo, complice anche il sistema della Premier League che lascia alle squadre due giorni ‘off’, all’alimentazione. Inevitabile, dunque, partire con la più classica delle domande in materia: Claudio, ma è vero che senza pane e pasta non si avrebbe l’energia per i 90 minuti? “Per rispondere voglio fare una premessa doverosa, quella relativa al valore e all’incremento del VO2max, ovvero il massimo volume di ossigeno consumato per minuto. Una misura globale integrata della massima intensità di esercizio che un soggetto può tollerare per periodi di tempo abbastanza lunghi. Un parametro biologico che esprime il volume massimo di ossigeno che un essere umano può consumare nell’unità di tempo per la contrazione muscolare. In breve, più questo valore è alto nello sportivo, più l’atleta resiste alla fatica e ha maggior grado di resistenza. Attenzione però, è provato che l’allenamento può essere un fattore migliorativo solo in piccola parte”. E allora qual’è l’altro fattore determinante? “L’alimentazione. Infatti è stato scoperto come nelle popolazioni e nelle persone che non mangiano cereali (pasta in particolare, pane e farinacei contenenti glutine), zuccheri, legumi e latticini il VO2max può aumentare addirittura del 20/30/40%, il tutto a parità di allenamento, o addirittura senza fare attività fisica. Semplicemente mangiando. Questo valore più è alto e più l’atleta avrà una prestazione forte e sana. Ovviamente un più alto livello basale di VO2max è dettato dalla genetica, ma con l’allenamento (quello giusto, pesante ma con molto riposo) allora si può alzare la soglia”.

    Dieta Mediterranea? Un falso mito
    E allora qual è, nel calcio, la miscela ideale tra dieta e riposo per incrementare questo valore e rendere più performante un giocatore? “Si dovrebbe prevedere almeno 2 volte a settimana di riposo totale, di stacco anche dal campo di allenamento. Non è fantascienza, è roba che fanno già in Premier League, dove guarda caso le squadre hanno meno infortuni e corrono senza sosta per tutti i 90 minuti. L’ossigeno dà la prestazione e resistenza alla fatica, e se il suo valore scende allora il muscolo va in crisi, s’indebolisce e aumenta la probabilità di infortuni, crampi e stanchezza. Il corpo quando ha una maggiore quantità di ossigeno ti dà più resistenza alla fatica, e questo – oltre al talento – è quello che fa la differenza tra un campione e un giocatore normale”. Ma quindi si può ottenere energia senza pasta e i soliti carboidrati? “Assolutamente sì. Gli alimenti acidi (soprattutto la pasta, magari ancor più acidificata dalla classica passata di pomodoro) e gli zuccheri indeboliscono i muscoli, riducono e alterando i processi di ossigenazione. Non solo, cibi acidi e con glutine (in particole nei soggetti intolleranti/sensibili al glutine e non solo) possono rilasciare una proteina (la Zonulina) che rompere le “giunzioni serrate” nel rivestimento intestinale, creando un intestino permeabile: favorendo l’insorgere di affaticamento cronico e bloccando il passaggio dei nutrimenti buoni ai muscoli. Aumentando quindi la possibilità di infortunarsi”. Questa scoperta è dimostrata dagli studi del ricercatore italiano Alessio Fasano dell’università di Baltimora.

    Un’alimentazione sbagliata fa calare a metà partita
    Ma allora – per esempio – la classica ‘crostata con la marmellata’ prima della partita può inficiare sulla prestazione? “Certo. Anzitutto è una sostanza acida e con glutine (proprio come la pasta), e quindi interferisce sul valore di ossigeno nel corpo e aumenta la probabilità di debolezza. Aumentare il grado di assunzione di zucchero vuol dire che nella prestazione il corpo umano comincia ad utilizzarli come carburante preferito a discapito dei grassi. Ma il glicogeno intramuscolare, cioè la quantità di zucchero che puoi immagazzinare nel fegato e nei muscoli, ben che vada non dura più di un’ora. Motivo per cui la maggior parte delle squadre cala dopo il 60″ del secondo tempo. Col passare dei minuti il corpo dovrebbe andare avanti utilizzando grassi e proteine, ma siccome durante l’anno l’atleta ha mangiato prevalentemente zucchero e cibi acidi non ha grassi sufficienti e crolla in bambola perché li ha consumati in poco tempo”. E quindi, cosa si dovrebbe mangiare? “Beh, in Italia forse è tabù dichiarare quanto segue: ovvero che le proteine e i grassi dovrebbero essere gli alimenti prevalenti nella dieta di uno sportivo e non solo, eliminando così pasta, pane farine e latticini. Semplicemente mangiando e sostituendoli col cibo che l’uomo è abituato a reperire da sempre: frutta (zuccheri comunque ricchi di minerali e con effetto alcalinizzante, non acido ma basico), carne, pesce, uova e proteine. Magari può essere buona cosa utilizzare gli zuccheri entro un’ora dalla fine della partita, con l’obiettivo di ricaricare il glicogeno perso durante la gara. Zuccheri con proteine però, dalle banane e le patate al pollo e il pesce. Oppure il riso, un carboidrato quanto meno privo di glutine”.
    Il modello Conte
    Muscoli tonici, sani e riposati, dunque, abbiamo visto come siano il segreto per non subire rotture e traumi. Perché, come detto da Tozzi, l’infortunio è il modo in cui il nostro organismo ci dice che ci stiamo allenando troppo. Inoltre bisognerebbe cambiare qualcosa dal punto di vista alimentare. Un po’ come ha fatto Conte dalla Nazionale al Chelsea, eliminando glutine e zuccheri, aumentando così il livello di ossigeno (maggiori prestazioni e diminuendo gli infortuni). “Questi alimenti naturali la natura ce li offre da sempre, soltanto negli ultimi 10.000 anni l’uomo ha introdotto l’ agricoltura che ha portato all’ utilizzo anche di ‘nuovi cibi’ come i cereali, i legumi, latte e derivati, mai ingeriti in precedenza da nessun essere umano. Certo, per riconfigurare i nostri geni sui nuovi alimenti il nostro organismo dovrebbe farcela in almeno 20.000/30.000 anni, ma ci sarebbe un piccolissimo problema: ne sono passati ‘solo’ 10.000…”. Dalla Nazionale al Chelsea l’alimentazione di Conte privilegia l’asse proteine della carne-zuccheri della frutta e lascia in panchina i carboidrati forniti dal pane e dalla pasta (limitati nettamente). Niente abbuffate, ma tanti piccoli pasti durante la giornata. Emblematico, inoltre, il caso del giocatore della Germania e dello Schalke 04 Leon Goretzka, che in passato ha dovuto saltare molte partite per infortunio. Di recente però, seguendo una dieta priva di glutine, latticini, carne di maiale e noccioline, ha giocato quasi tutte le partite.
    Cibo e Vitamina D
    Ovvio, il talento, la tattica e la motivazioni sono alla base per vincere, ma sicuramente cercando di cambiare o quantomeno approfondire l’aspetto dell’alimentazione e del recupero si potrebbero prevenire la maggior parte degli infortuni e dei cali fisici durante le partite. Cibo e riposo. E di modelli buoni ce ne sono, dal Chelsea di Conte fino al Barcellona degli ultimi anni: una squadra che addirittura non faceva la preparazione pre campionato. Sì, nella prossima pubblicazione scopriremo il metodo di Seriul Lo, ex preparatore dei blaugrana e uomo fidato di Guardiola. E soprattutto parleremo anche di come gli infortuni siano Vitamina D correlati. Sì, questo argomento, praticamente sconosciuto, è sicuramente uno dei segreti per rinforzare in maniera naturale la salute di ossa e muscoli. “La Vitamina D, prodotta naturalmente dal sole, nei periodi invernali è in forte calo in tutti noi. La Sampdoria so per certo che integra ai propri giocatori dosi di Vitamina D, appunto per migliorare le performance e ridurre il rischio di infortuni. In particolare, gli studi dimostrano che un calciatore su tre ne è carente”. Insomma, c’è ancora tanto da approfondire, ma solo con lo studio e la ricerca delle naturali soluzioni per il corpo di un atleta si potrà ulteriormente migliorare. Perché sì, il momento è delicato, ma forse ne potremo venire finalmente a capo. Magari in una Serie A con molti meno giocatori infortunati.


  5. L’importanza della forza nel calcio

    by Emiliano Adinolfi

    zanetti

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

    Entriamo nel dettaglio. Perché un giocatore dovrebbe fare pesi? “Premessa: per qualunque sport sono necessari pesi pesanti. Non esiste il peso fatto per il nuoto, la corsa, il calcio: ma esiste il peso. La parola peso non vuol dire solo mettere massa muscolare, non significa diventare grosso. Fare pesi, per un calciatore, deve significare lavorare sulla fibra bianca del muscolo, ovvero quella veloce. Quella che serve per aumentare la velocità dello scatto, per superare gli avversari e per saltare. Insomma, quella che serve per bruciare chi hai di fronte nella distanza di 5/10 metri, quella decisiva per vincere i duelli in campo. O per volare all’incrocio dei pali”. Claudio, ma nelle immagini e video degli allenamenti spesso si vedono i giocatori utilizzare i pesi nei loro sedute: “Certo, ma se si fa attenzione si capisce subito come siano dei carichi troppo leggeri. Nel calcio i pesi, si dice da sempre, legherebbero il muscolo rendendolo cieco. Questa è la regola che segue il 99% delle squadre italiane. In realtà, se noi guardiamo le foto e i video degli allenamenti, i pesi ci sono. Ma se andiamo a vedere sono dei carichi davvero bassi, inutili per il potenziamento ma solo logoranti per le articolazioni. Se c’è un bilanciere sopra c’è massimo 10 kg per lato. In palestra i giocatori sollevano carichi bassissimi. Inutili all’incremento della forza. Attenzione, non stiamo parlando di diventare enormi, semplicemente di aumentare la forza. E il lavoro con i pesi dovrebbe mirare ad aumentarla, invece quelli leggeri lo indeboliscono perché non raggiungo le fibre bianche (ad alta eccitazione)”.

    “Il segreto è lavorare sulla fibra bianca. Quella che si contrae 4 volte più velocemente rispetto alla fibra rossa (di resistenza). E per farlo il carico deve essere al 90% del massimale (ovvero il massimo del peso alzato con una sola ripetizione, Lindsey Vonn la più grande sciatrice al mondo si allena con squat da 200kg ). Ma non solo, basti pensare ad Javier Zanetti, esempio vincente e maniacale cultore del proprio fisico.”Io ritengo che la forza nelle gambe sia fondamentale per evitare gli infortuni. Di “press” faccio 190 kg con una gamba”, dichiarò tempo fa la leggenda dell’Inter. Quindi tanti chili per gli esercizi base, dallo squat alla panca piana sul bilanciere. E con poche ripetizioni, dalle 2 alle 6. Attenzione però, un calciatore in settimana già si allena troppo a livelli fisico e aerobico, in più gioca di media due partite (logoranti da un punto di vista fisico), per questo la seduta con i pesi andrebbe fatta solo una volta a settimana. Magari nel giorno di scarico. A patto che sia pesante, breve e intensa. E soprattutto seguita da un successivo riposo a livello aerobico. Prediligendo soltanto le situazioni tecnico e tattiche. Perché la velocità non si aumenta con la corsa, i cambi di direzione, con le estenuanti ripetuti, i gradoni e gli scatti. Si aumenta grazie all’esplosività, un fattore dato dalla forza incrementata grazie al lavoro in palestra. Un po’ come fa Bolt, il più grande velocista della storia, così forte grazie anche alla potenza sprigionata dai suoi muscoli (allenati con i pesi)”.
    “Una partita di calcio, a livello fisico, implica un recupero di quattro giorni. Ma è impossibile fare ciò, perché le sedute di riposo nel nostro calcio stanno quasi a zero. Addirittura, per la massima resa, la letteratura scientifica consiglia almeno 7 giorni di riposo totale. In questo modo, con le fibre rigenerate, uno sportivo correrebbe il doppio (curiosa la storia di Catherine Bertone, campionessa italiana di maratona a 44 anni. Lei, una pediatra che ha debuttato alle Olimpiadi di Rio a 44 anni allenandosi semplicemente nei ritagli di tempo). L’effetto del peso, di alzare con esercizi naturali (quali squat, panca piana e stacco da terra) chili pesanti rafforza i muscoli che a loro volta proteggeranno le articolazioni. Ah, si dovrebbe lavorare una sola volta a settimana con i pesi, al 90% del massimale, aumentando progressivamente il carico. Ottenendo così più compattezza sulle gambe. Lavorando sulle fibre bianche (veloci a rapida contrazioni) e risparmiando quelle rosse (lente) che servono per la resistenza. E’ la forza che fa vincere, l’esplosività. La mancanza di massa muscolare sulla coscia, in particolare nel bicipite femorale che protegge il ginocchio, può portare alla rottura del crociato. L’infortunio arriva perché il vasto mediale, se si indebolisce, non facendo pesi, e affaticato dal troppo lavoro atletico, non protegge il collaterale e il crociato e si rompe. Il crociato che fa crac, molto probabilmente, è dovuto ad una povertà di sensori propriocettivi. E se il quadricipite di un calciatore di per sé è abbastanza potente, bisognerebbe equilibrare la sua parte posteriore, ovvero il bicipite femorale. Il vasto mediale si potenzia con la squat pesante, non con le logoranti ripetute. Bisogna creare precisi rapporti di forza: in particolare tra il quadricipite e il bicipite femorale. I lavori con pesi leggeri e prolunganti, invece, affaticano le fibre lente e aumentano la probabilità di infortunio. In particolare ci sono due tipi di conformazioni umane. Quelli alti con gli arti lunghi e quelli con gli arti normali. Giocatori alti e longilinei, come Milik, per aumentare la forza e l’ipertrofia necessitano non più di sei ripetizioni al loro massimale(a patto che siano infrequenti e pesanti, vedi la testimonianza di Zanetti). Sopra le sei ripetizioni un atleta con gli arti lunghi non aumenta né di forza ne di massa. E più corre, più lavora in condizione aerobiche, magari con gli estenuanti circuiti, ripetute e gradoni, non fa altro che indebolirsi”.
    Non serve diventare degli Hulk. Anche se l’ex giocatore dello Zenit è tutto tranne che lento. Anzi, i giocatori grossi, muscolari, sono sempre quelli più sani e veloci. Lo confermò proprio Javier Zanetti, un higlander del nostro calcio: “Io ritengo che la forza nelle gambe sia fondamentale per evitare gli infortuni. Di “press” faccio 190 kg con una gamba. Quando sono arrivato in Italia con il prof. Bordon, ho iniziato a fare questo programma di forza che mi ha aiutato tantissimo. Bicipiti e quadricipiti”. Parola di un giocatore con un’infinità di partite nelle gambe. Sempre titolare e sano. Ma gli esempi di calciatori muscolari (attenzione, non per forza grossi) vincenti è pieno. Da CR7, sempre attento al riposo e alla cura del suo fisico) fino ai campioni del passato: da Rumeniggue, Briegel fino ai portieri. Vedi Peruzzi, grosso, muscoloso, ma sempre agile e padrone della sua area. Passando per gli altri sportivi, da Bolt (si allena moltissimo con i pesi per aumentare la forza) a Nadal. “Certo, vince anche chi è meno dotato muscolarmente come Federer, ma non esiste la controprova per cuiRoger e gli altri atleti dal fisico normale non avrebbe vinto altrettanto con 5 kg di muscoli in più. La gente pensa che il calcio sia uno sport diverso. Ma se in tutti gli altri sport al mondo fanno i pesi pesanti, perché nel calcio non dovrebbero farli? E soprattutto non c’è un’ecatombe di giocatori dal gran fisico con tanti problemi muscolari. Un po’ come CR7, dal corporatura enorme, ma che col passare degli anni corre allo stesso modo di quando era ragazzino”. Ok Claudio, ma casi come quelli di Pato e Ronaldo il Fenomeno? “Quest’ultimo aveva una fragilità congenita del tendine rotuleo, è quasi un caso raro il suo. E poi sono davvero pochi i giocatori infortunatisi per i pesi. Pato? I pesi si possono fare nella maniera errata e diventare quindi dannosi. Soprattutto se leggeri e seguiti da poco recupero”. Insomma, nel calcio i pesi (pesanti, brevi, e seguiti dal riposo) sono il fattore determinante per la forza e la salute del giocatore.